catarifrangènte agg. e s. m. [comp. di cata- e
rifrangente, part. pres. di rifrangere] – Gemma c. o dispositivo c., e oggi più
comunem. catarifrangente s. m., lo
stesso che catadiottro, dispositivo costituito da un gran numero di particolari
lenti uguali (anch’esse dette catadiottri) ricavate su una placca di vetro o di
plastica, adoperato per segnalazioni stradali notturne, soprattutto per
delimitare le sagome dei veicoli o di ostacoli che fiancheggiano la strada.
catarifrangènza – Fenomeno per il quale una gemma o
un dispositivo ottico (detto catarifrangente) rinviano la luce che li colpisce
nella stessa direzione da cui essa proviene.
Nel complesso orizzonte di
ricerca di Rebecca Moccia si intrecciano lo studio della relazione – sociale,
culturale, filosofica, mediale – tra immagine, immaginazione e umanità;
l’osservazione e la sperimentazione di meccanismi narrativi e meta-narrativi;
la riflessione sul valore e sulle strategie documentali e documediali in ambito
artistico ed extrartistico. Questi tre “macro ambienti” della sua riflessione
artistica e intellettuale non solo rappresentano soggetti d’indagine ampi, che
permettono continue e necessarie interferenze o derive, ma offrono altresì
all’artista la possibilità di dare declinazioni multiple ai risultati che ne
conseguono, spaziando dalla scultura al video, dalla fotografia alla
performance, dal disegno all’installazione. Tuttavia, non è qui che si esaurisce
il valore del lavoro di Rebecca Moccia: la proliferazione di linguaggi, la
capacità di lavorare con differenti media in maniera quasi indifferente, è
ormai caratteristica consustanziale (con le dovute eccezioni) del fare
artistico delle nuove generazioni. Ciò che è più autentico e fertile nelle sue
modalità di approccio alla ricerca e alla produzione artistica è soprattutto la
volontà programmatica di metterne tutte le fasi e i risultati a sistema,
imbastendo progetti che non costituiscono momenti autoconclusivi ma si
dispiegano come una narrazione continua, fatta di filoni principali e
appendici, ma sostanzialmente espansa fino a includere la comunicazione delle
varie fasi o del progetto globale (utilizzando per esempio i social network
come contesto narrativo); le occasioni espositive, pensate come dispositivi in
cui le opere concorrono al funzionamento di mostre che sono opere esse stesse;
le modalità di relazionarsi con il sistema dell’arte ampliando la riflessione
dal personale (come Rebecca Moccia si relaziona e agisce all’interno del
sistema dell’arte) all’universale
(come gli artisti oggi possono relazionarsi e
agire all’interno del sistema dell’arte in maniera nuova e in linea con le
istanze socio-culturali dell’epoca in cui viviamo). All’interno di questo
stratificato organismo creativo, viene naturale partire dall’immagine. Dopotutto dall’arte ci aspettiamo immagini. Dopotutto viviamo nel tempo dei
social network, i quali fondamentalmente funzionano per immagini e proprio per
questo il nostro approccio al mondo si basa oggi essenzialmente sulla fruizione
di immagini, con una riduzione sempre maggiore del testo e spesso anche del
contenuto. Un lavoro particolarmente acuto in questo senso è Un linguaggio
inaudito (2013-2019): ciò che l’artista va ricercando qui è un linguaggio
molto vicino al disegno, da scrivere ma che non necessariamente si presenta
come leggibile. “L’obiettivo è fare esperienza di un tempo in cui i segni
linguistici prendevano la loro prima forma, in cui la linguistica nasceva da
una necessità logico-poetica. Per confrontarsi con il rischio d’impoverimento
cui è esposto il linguaggio ci si è avvicinati qui a ogni parola come se fosse
una persona, una soggettività composta di caratteristiche fisiche, in grado di
fare esperienze e avere relazioni. Dopo aver scelto coppie di sostantivi
sinonimi e di genere opposto, si è lavorato, con il coinvolgimento di un
calligrafo, sul carattere e la forma della loro traduzione grafica, tentando di
metterne in luce le differenti personalità segniche e semantiche” (Rebecca
Moccia). Una delle declinazioni tematiche di questa serie è, quindi, proprio la
riduzione della parola a immagine, il porre l’attenzione sul significante (il
segno grafico) a discapito del significato, che non viene dimenticato né
relegato ad affare secondario, ma che è ora veicolato in primis dalla forma,
dall’aspetto esteriore (afferrabile con il solo vedere) e solo poi si presenta
l’eventualità in cui, riuscendo a leggerla (e arrivando quindi al guardare), la
parola ci possa confermare la sfumatura di significato di cui il segno è
veicolo. In un certo senso è come restituire alle idee e alla poesia la loro
forma fisica per renderle nuovamente fruibili da un pubblico abituato a
fermarsi in superficie. “Interessante in questo senso l’utilizzo opposto della
parola nella ricerca concettuale in cui il segno è totalmente testo e mai
immagine” (Rebecca Moccia).
La
parola diventa così uno strumento dell’artista in un’invasione di campo che
tocca la linguistica e l’ambito letterario in generale, avvicinandosi forse
agli esperimenti di certa poesia visiva ma in una declinazione del tutto
contemporanea.
Ne è esempio anche Coraggio, progetto che guarda al mondo
del writing senza prestare attenzione, questa volta, al tema del lettering
(l’elaborazione creativa della firma dell’artista di strada che trasforma il
proprio nome in un esercizio di stile) ma sottolineandone piuttosto il valore
di opera pubblica. Coraggio è una scritta in smalto bianco sul tetto di
un edificio in Piazza Piemonte a Milano – non visibile dalla strada ma solo
dagli edifici della piazza o dal satellite – realizzata da Rebecca durante un
giorno di pioggia. I contorni della parola si sono immediatamente sbavati
rivelando “la vulnerabilità che coesiste insieme al coraggio in ogni atto di
rivendicazione” (Rebecca Moccia). In questo caso si tratta quindi di
un’immagine che oltre a svelare nuovi significati trascendendo la definizione
“da dizionario” del termine, sabota la natura dell’intervento celandosi alla
vista del passante occasionale perché visibile solo dall’alto. Così l’artista
sottrae il messaggio ai suoi destinatari, ne altera la funzione contingente per
assegnarla alla sfera del trascendente. Non sono quindi solo la scritta
“coraggio” e il suo messaggio a essere oggetto di indagine artistica, ma è
soprattutto un meccanismo, è il funzionamento stesso della comunicazione a
essere smontato, defunzionalizzato e ricostruito secondo nuove logiche. Ciò che interessa a
Rebecca Moccia in effetti è, come inizialmente accennato, indagare quella
particolare relazione che si instaura tra l’immagine e il soggetto comune e tra
questi e il mondo dell’arte considerando, oltre alle immagini di cui siamo
fruitori, anche le immagini di cui siamo produttori. Grazie appunto ai social
network e alle nuove tecnologie (smartphone, tablet, etc.), oggi non siamo solo
avidi fruitori di immagini ma ne siamo anche produttori compulsivi. Utilizziamo
le immagini per raccontare delle storie, le nostre, per come sono o per come
vorremmo che fossero. Utilizziamo le immagini per proiettare al di fuori di noi
stessi un’identità idealizzata, edulcorata, spesso vera solo nella finzione
narrativa del nostro profilo social. L’attenzione nei confronti delle immagini
si sposta allora, in Rebecca Moccia, all’ambito della narrazione,
all’evoluzione che i sistemi narrativi vivono non solo in base ai temi
descritti ma anche in base ai contesti. Così, il lavoro dell’artista diventa
una meta-narrazione, attinge dai sistemi narrativi attuati da lei stessa o da
terzi, per esplicitarne le modalità attraverso cui “il racconto nelle sue
diverse declinazioni digitali e analogiche, un’immagine e/o un evento
collettivo possono assumere caratteristiche mitopoetiche e far assumere un
valore inaspettato a un’esperienza comune” (Rebecca Moccia).
Catarifrangente si inserisce proprio in questo lungo interrogarsi sui meccanismi della
comunicazione in generale e della narrazione in particolare mettendo a sistema
una serie di lavori (tra cui quelli menzionati) che, proprio come recita la
definizione del termine riportata in apertura a questo testo, funzionano come
un unico dispositivo di rifrazione: dell’immagine, del significato, del
messaggio, del contenuto. Al piano superiore la condizione di “catarifrangenza”
viene introdotta da opere come Fireworks, disegni di fuochi d’artificio
che “simboleggiano la portatilità (il piccolo nel grande e il grande nel
piccolo), la precarietà, l’intangibilità proprie della poesia” (Christian
Caliandro) e insieme parlano della condizione dei giovani artisti oggi che
“vivono in case condivise di progetti irrealizzati; che producono arrangiati
nei seminterrati umidi e che, elaborazioni sofisticate, di materiali pregiati,
precisi, non possono permettersele. Gente che tutto quello fa se lo porta
dietro (non esiste magazzino), non è (quasi mai) venduto o vendibile, anzi che
spesso è solo un’immagine regalata, una sensazione, una temperatura, qualcosa
che si esaurisce in maniera semi-istantanea, resta in un Mac, nel telefono, in
tasca…” (Rebecca Moccia). I disegni Fireworks, che proprio alla luce di
questa condizione esistenziale, di cui si fanno immagine e simbolo, sono
oggetto di una disseminazione libera, estranea al sistema dell’arte: circolano
sui treni e i tram del mondo in una sorta di “art-sharing” partito da Venezia e
poi diffuso fin dove chi è entrato in possesso di uno di essi ha voluto
portarlo. Qui si presenta una delle possibilità di evasione, o meglio di
relazione alternativa di Rebecca con il sistema dell’arte. Fuori dalle
gallerie, fuori dal mercato per entrare invece nel mondo. Al piano interrato la
“catarifrangenza” muta invece in coesistenza dialettica di opposti dividendo le
opere secondo gli attributi “acceso” e “spento” per arrivare, attraverso
l’espediente delle differenti condizioni di luce e della distribuzione dei
lavori in base alla predominante cromatica chiara o scura, a parlarci di una
condizione esistenziale diffusa. Così, se la nostra attenzione, il nostro
pensiero, le nostre emozioni sono ogni giorno alternativamente accese e spente
nel complicato sistema mediatico di immagini, narrazioni, documentazioni
compulsive di ogni azione ed evento (oggetto di approfondimento nell’appendice
dedicata al progetto per ArtVerona Documentalità), la speranza ora è di
uscire di qui “catarifragenti”.