Uno degli aspetti più
evidenti della ricerca di Marco La Rosa (Brescia, 1978) è sicuramente
l’inscindibile legame con l’ambito filosofico, che si fa matrice concettuale
non solo delle singole opere (o cicli di opere), ma più in generale del
pensiero dell’artista, del suo modo di sentire il mondo e le leggi universali
che lo regolano. Prima di tutto l’indagine sul vuoto, sulla dimensione più
immateriale delle cose, per certi versi insondabile eppure così concreta. Un
vuoto che si declina sia in senso fisico che spirituale, sia in veste tangibile
che trascendentale in un passaggio dall’universale all’intimo che, dialogando
con gli ambienti della mostra, serpeggia tra le sale di Spazio Cordis andandosi
a insinuare sempre più in profondità. Nella prima sala, infatti, I vizi capitali (2018) - forme morbide
in duro cemento su cui gli istinti più profondi e atavici dell’uomo hanno
lasciato una traccia indelebile - si confrontano con un famoso passo dantesco -
simbolo del viaggio alla ricerca della conoscenza - scomposto in ogni suo
elemento significante e ordinato secondo l’alfabeto (Considerate la vostra semenza (XXVI, Inferno), 2018). Nell’ultima
sala nel piano interrato, invece, a venir scomposta è l’essenza stessa
dell’artista il cui Autoritratto (2012) corrisponde a una precisa combinazione di solidi platonici in
quantità proporzionali rispetto agli elementi di cui il suo corpo si compone. Una
riduzione ai principi primi, agli elementi costitutivi dell’esistenza, che
anziché depotenziare il soggetto, lo carica di pregnanza estetica e
intellettuale. Nel mezzo, un continuo addentrarsi nella materia e nell’essenza
delle cose, sempre più a fondo e rispondendo a un imprescindibile bilanciamento
tra materiale e immateriale, tangibile e intangibile, pieno e vuoto, o meglio: “vuoti
pieni”.
È ciò che accade per esempio con il ciclo Derive (2016), materializzazioni del vuoto esistente all’interno di
condutture idrauliche di cui si perde il contenitore per rendere visibile il
contenuto: un elemento base del costruire viene quindi privato della propria
funzione perché ne venga indagato ed estetizzato l’invisibile. Lo stesso accade
con la serie Apoteòṡi (2016): colate
di piombo fuso all’interno degli spazi interstiziali di quei mattoni forati che
servono per costruire i muri delle nostre abitazioni, le fondamenta fisiche,
materiali di ciò che chiamiamo “casa” e di cui però non resta nulla, se non
contorti totem di piombo. Questo andare in profondità, questa tensione verso
spazi interiori, questo penetrare la materia per dare forma all’essenza, all’impalpabile, all’invisibile dandone però testimonianza
concreta, solida, monolitica in certi casi, potrebbe ricondurre alla dicotomia tra fenomeno e noumeno, forse più nell’accezione schopenhauereiana rispetto a
quella kantiana. Se per quest’ultimo infatti il noumeno è una meta fenomenica che si realizza solo in rapporto
all’essere umano e per questo può essere oggetto di intuizione sensibile ma
resterà sempre inconoscibile, per Schopenhauer il noumeno è la realtà che si nasconde dietro “la trapunta arabescata”
del fenomeno, il quale altro non è
che parvenza e illusione. In questo senso il noumeno, ciò che sta al di là del sottile velo illusorio del reale,
ha una valenza tangibile e concreta, vera. A questo principio possiamo
avvicinare l’indagine dell’immateriale di La Rosa, quella sua tensione verso
ciò che sta al di là, dentro, in profondità; quel suo dare forma e solidità
all’invisibile facendo del vuoto scultura. Alla dimensione oggettuale e immanente
va poi sicuramente associata quella del Tempo: il potenziamento fisico ed
estetico investe anche questa componente del regno dell’intangibile, proponendo
una solidificazione di momenti sottratti al continuo scorrere del tempo ed eternizzati
nel cemento o nel gesso alabastrino. È il caso, per esempio, delle serie
dedicate ai mesi e alle settimane (in mostra Second week of January, 2014): superfici mutevoli su cui annotare
stati d’animo e sensazioni, non a parole, ma attraverso delicate variazioni
cromatiche o della texture. Essere e Tempo si intrecciano nelle relazioni di La
Rosa con la materia. Ne è massima esemplificazione Dasein (2013), letteralmente “l’esserci”, qui e ora, in un
principio di esistenza attimale ed eterno allo stesso tempo. In quest’opera i
solidi platonici, gli elementi costitutivi dell’Essere, sono ricompresi,
compressi, costretti da una pellicola nera: riassorbiti nel magma primigenio,
come nel primo dei processi alchemici - la nigredo - si preparano a un nuovo
inizio. La fine delle cose coincide così con il principio stesso della
creazione.
Nessuno di tutti gli
elementi trattati dall’artista nella sua ricerca può infatti prescindere dal
suo contrario: il dentro non esiste senza il fuori, il vuoto non esiste senza
il pieno, l’attimo fuggente non esiste al di fuori della rete eterna del Tempo.
Si tratterà allora di camminare su un crinale, su un limite, su un confine
(come quello della serie Antinomie, 2013),
in cui attraverso la solidità della scultura è possibile esplorare il mistero
dell’impalpabile.